
Bella come una dea
Avete presente quando la vita vi scorre davanti come fosse un film? Non credo esista libro o pellicola nel quale non sia stato utilizzato questo cliché. Bene. È successo anche a me e, se avrete la pazienza di ascoltarmi, ve ne spiegherò il motivo.
È successo tre anni fa, quando lavoravo nell’azienda di trasporto pubblico della capitale. Sono sempre stato un donnaiolo, uno sciupafemmine. Ho un discreto charme che porta le donne a innamorarsi di me e a concedersi con una certa facilità. Sarà il fascino della divisa – faccio l’autista di tram –, la carnagione olivastra o gli occhi verdi, ma con loro mi viene davvero facile agganciarle mentre sto in servizio. Quante turiste son passate sotto le mie lenzuola, e di quante altre ho visitato le camere d’albergo. Con le straniere non è mai stato un problema, il romanesco basta e avanza a farmi capire. Due gesti, un daje, ‘na carezza sulla guancia e appena stacco dal servizio le colpisco. Ma pure le italiane ci stanno, mica niente. E con loro è ancora meglio.
Quell’anno avevo conosciuto una certa Rita, d’un tratto aveva iniziato a prendere il tram mio tutti i giorni alla stessa ora. Mora mora, du’ occhi grandi così e du’ zinne che le mani mie non riuscivano a strigne. Mi scuserete, ma con l’italiano non ci mastico molto. Saliva dalla porta davanti e, dopo aver obliterato il biglietto, se ne andava a sedersi dietro. Quanti sguardi le rubavo nello specchietto, e lei, tutta timida, girava veloce il viso e si faceva rossa come il tramonto de Ponte Sisto. Quanto m’ha fatto dannare, povera fia. Me stavo proprio a ’nnammorà. Ma siccome l’omo è omo, continuavo a corteggiare anche le altre che mi chiedevano informazioni su questo o quel posto. Anche i colleghi miei sapevano di questa dote e mi chiamavano er Casanova de Trastevere. È il quartiere mio, dove so’ nato e dove vivo da sempre. Sto al quarto piano di un palazzetto senza ascensore, di quelli vecchi con le scale strette e i gradini alti; quando mi porto qualche femmina che ho conosciuto, è un piacere mandarla avanti a me e ammirarle il sedere. Ne ho visti in tant’anni di carriera: grandi come ‘na zampogna, piccoli che ce stavano in du’ mani. Sodi come cocomeri e flaccidi come burrata. Il corpo di una donna è sempre bello, mica come quello dell’omo co’ ‘sto pendolo ammezzo alle gambe.
Ma con ‘sta Rita non c’era nulla da fare. Giusto un saluto, buongiorno e buonasera. Du’ mesi ce so’ stato dietro. Manco a dire che fosse una suora, l’avrei anche capito. Siccome che era giugno, quando la vidi per la prima volta, indossava certi vestitini che si faceva fatica a non immaginare le sue curve. Quando andava dietro, e il mezzo era abbastanza vuoto per consentirmi di vederla bene, pareva che stessi a ‘na sfilata. La notte me la sognavo al rallentatore con l’abitino svolazzante, come smosso dalla brezza leggera della sera, e i capelli lunghi che ondeggiavano sulla schiena. Una dea. Quanti sogni c’ho fatto sopra.
C’è ‘n amico mio, Marcolino, che gestisce la palestra vicino a casa. È alto un metro e sessanta e per passare le porte deve mettersi di lato. Ogni tanto vado da lui a rilassarmi e a curare il mio fisico, che alle donne ci piace quando i muscoli sono segnati e si sentono al passare delle dita. Gli avevo raccontato di quest’angelo e di come avevo perso la testa. Marcolino è un ragazzone di poche parole, ma ha sempre il consiglio buono per tutti. Così una sera mi dice: “Mario” – Mario sono io – “tu sei abituato a un altro tipo di donne. Quelle da una sveltina e via. Metti in mostra un sorriso e il bicipite, e quelle cascano come pere cotte. Questa è diversa, cambia tattica”.
C’avevo ragionato su quello che mi aveva detto Marcolino, ma non sapevo che inventarmi per conquistarla. Anche perché lei vedeva che facevo il simpatico con tutte le altre. Pensa e ripensa, una notte mi s’accende la lampadina. Abituato a guardare il viso e tutte le altre cose belle che c’hanno le donne, non avevo fatto caso ai libri che a volte leggeva durante le corse e le soste lunghe. Era un’intellettuale. Bene, mi ero detto. Per fortuna che qualcuno l’ho letto, dato che mi’ sorella a Natale non sa mai cosa regalarmi. Così, il giorno dopo ne avevo portato uno appresso e, appena spento il motore, mi ero messo a leggere senza fare il cascamorto con quelle che salivano o scendevano dal tram. Quel giorno e pure i seguenti. Quanta fatica, signora mia. Veder passare tanta mercanzia e dovermi trattenere dal fare una battuta delle mie. Ogni tanto alzavo gli occhi sullo specchio a controllare i ragazzetti che si spintonavano e più di una volta avevo incrociato il suo sguardo incuriosito. Stoicamente facevo finta di nulla e continuavo a leggere. Questa parola l’ho imparata da un libro sulla storia di Roma e mi piace usarla. L’amici del circolo dello sport me dicono che parlo strano a volte.
Insomma, per farla breve, una sera, mentre stava per scendere dal tram, mi si è fatta vicina e mi ha chiesto cosa stessi leggendo. Er core m’ha fatto un botto come se stesse per fermarsi. “Io uccido”, le avevo risposto, dopo aver ripreso il controllo. Con un gesto teatrale avevo sollevato il libro per farle vedere la copertina e un sorriso le si era acceso sul viso. “Lo conosco, mi piace molto Faletti”, aveva risposto con tono amichevole prima di scendere. La mattina dopo, invece di andarsene dietro si era fermata vicino a me a parlare di libri. Mi aveva detto che amava leggere i classici della letteratura e che non disdegnava letture più leggere come Faletti, forse per farmi sentire meno superficiale. Di tutti i nomi che aveva menzionato non ne conoscevo nemmeno uno, anche se avevo annuito come a dire che sì, sapevo chi fossero. Avevo fatto un passo avanti, ma ora restava il grosso scoglio di come convincerla a uscire con me. Non volevo rovinare tutto, dopo essere, finalmente, riuscito ad agganciarla. Se non altro, era servito per avvicinarmi alla lettura, attività che avevo sempre disdegnato se non in rari momenti. E giusto perché mia sorella mi stressava per sapere come erano i libri ricevuti.
Indeciso su come tentare un approccio, ero rimasto sorpreso da lei. Era un sabato, il mezzo era carico di turisti che si sventolavano per il caldo e l’aria era satura di sudore. “Ti va di bere qualcosa?” Dal nulla se ne era uscita con quella proposta accattivante, balsamo per la mia sete e il mio orgoglio. “A voja”, avevo risposto tutto d’un fiato senza nemmeno pensarci. Raggiunta la fermata dove avrei sostato più a lungo, avevo fermato il mezzo, e, al bar di fronte, ordinato due bibite rinfrescanti. Ce ne stavamo lì a bere in silenzio, godendo del beneficio per i nostri corpi accaldati. Poi avevo tentato il tutto per tutto e mi ero lanciato in una proposta indecente: “ti andrebbe di vederci in un altro momento?” Mi aveva guardato per diversi secondi, un mezzo sorriso che non riuscivo a decifrare, in bilico tra il mandarmi a quel paese e l’accettare la mia proposta, avevo pensato. “Che suggerisci?” Il cuore, accelerato fino a quel momento, pian piano aveva rallentato la sua corsa e avevo fatto la mia proposta: “una cena, una passeggiata per le vie del centro e poi chissà…”. Avevo lasciato la frase in sospeso perché non volevo spingermi troppo, ma soprattutto per vedere la sua reazione. Aveva mugugnato un po’ e ancora una volta mi sorprese: “e se passassimo direttamente al chissà? Non all’ora di cena, però; di sera non posso”. Avevo notato che teneva la testa leggermente inclinata da un lato mentre parlava con me, e quella posizione mi faceva eccitare da matti. Nel frattempo si era fatta ora di ripartire e dopo aver deciso quando incontrarci, eravamo risaliti a bordo e alla sua solita fermata era scesa, lasciandomi solo a pensare; le donne a volte sono strane. Vogliono tutte la stessa cosa, ma è il modo di avvicinarle che cambia. Da qualche parte avevo letto che il cervello è la migliore zona erogena in una donna. Sarà, ma anche le altre non sono da meno e si fa meno fatica a stimolarle.
La settimana dopo ci eravamo visti a casa mia, in una giornata in cui ero non ero di turno. Avevo riordinato per bene, comprato dei fiori che le avrei regalato e messo una bottiglia di vino bianco in fresco. Era arrivata all’ora concordata. Era ancora più bella di come la ricordavo, eppure l’avevo vista il giorno prima sullo stesso percorso. I capelli mossi erano spumeggianti, soffici nella loro piega, fresca di parrucchiere. I sandali leggeri mettevano in mostra piedi delicati, al pari delle gambe, lasciate scoperte da un vestitino che scendeva poco oltre la linea dei glutei e che teneva a fatica il suo seno. Sorrideva di un desiderio impaziente e, bevuto un piccolo sorso di vino, mi era saltata addosso per baciarmi. Avevamo fatto l’amore come non sapevo si potesse fare. Appassionato, furioso, tenero, sporco. Era stato così intenso da farmi trovare degli aggettivi che non riconosco come miei. Poi era andata via con lo stesso sorriso, questa volta soddisfatto. Ci eravamo visti ancora per tutto il mese, una volta alla settimana, sempre nello stesso orario. Non sapevo nulla di lei, non sapeva nulla di me. Non era importante conoscerci oltre i nostri corpi. Fino al giorno in cui tutto mi apparve confuso. Sfiniti, dopo aver fatto l’amore, giacevamo sul letto, mano nella mano. Aveva risposto al telefono che squillava incessantemente. Risposte brevi ad altrettante domande secche. “Devo andare”, aveva detto appena chiuse la comunicazione. Boccaccia mia, state zitta come sempre. Avevo voluto sapere chi era, e lei mi aveva accontentato. Incredulo avevo ripetuto: “tuo marito?” La mia mente annebbiata dalla sua bellezza si era disegnata una donna libera da legacci affettivi. E per mostrarmi il terreno instabile sul quale stavo camminando, aveva aggiunto che lavorava come meccanico nella mia stessa azienda. Mi ero lanciato fuori dal letto, incredulo a quanto avevo appena scoperto. “Chi è?” Avevo urlato nella sua direzione, mentre si tirava su il vestito. “Chi cazzo è?” Avevo ribadito in preda alla disperazione. “Luigi”. Una risposta masticata tra le labbra semi aperte. E il mondo mi era crollato addosso senza possibilità di riparo. Quante risate mi sono fatto con Luigi, e quante bevute al circolo del dopo lavoro. Lo rispettavo, Luigi. Ho sempre avuto una regola, io. Mai farsi le donne degli amici. E ora l’avevo infranta. “Vattene”, avevo sputato tra saliva e sangue per essermi morso il labbro.
Ero certo che avesse scoperto tutto di noi e prima o poi avrei dovuto affrontarlo, spiegarmi, se mai avesse potuto esserci un modo per farlo. Avevo evitato per diverso tempo di incrociarlo, finché un giorno mi ero detto che avrei dovuto risolvere la cosa. Terminato il turno, avevo pensato, ci parlerò. Alle cinque del mattino di quel maledetto giorno, acceso il motore del mio tram ero uscito lento dal deposito. Prima di arrivare alla fermata iniziale c’è un lungo rettilineo e una serie di svolte. Come sempre, quando sono scarico, spingo sul gas più del dovuto e testo i freni. Anche allora. Una pompata, due. Niente, il pedale affondava senza resistenza, e il mezzo andava sempre più veloce con il rettilineo che si apprestava a terminare. Avevo guardato spasmodicamente negli specchietti esterni e pensato a quale manovra compiere per rallentarne la corsa. Macchine ovunque. In una frazione di secondo ero andato avanti con la mente per immaginare cosa mi sarebbe accaduto. Affronterò l’incrocio senza riuscire a svoltare in tempo e con la dovuta velocità, il tram si metterà di traverso e si girerà su un fianco per strisciare sull’asfalto reso viscido dal caldo. Strapperà il guardrail dalla sua sede come fosse di carta e andrò a schiantarmi sul fabbricato che insiste sul terreno sottostante. Luigi. Quel gran bastardo mi aveva manomesso i freni, ne ero certo. Era successo tutto in un attimo e, come se fosse un film, avevo rivisto la mia vita scorrere via veloce e sfuggirmi di mano come un filo d’erba tra le dita.
«Stop! Perfetta. Ne facciamo un’altra per sicurezza. Tutti ai propri posti e… azione!»