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IL PAESE DEI GALLI - 01

2021-03-22 19:11

Sabrina Mills

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IL PAESE DEI GALLI - 01

Il paese, sperduto nei campi del pavese e abitato da cinquantasei anime, è attraversato da un’unica lingua di asfalto, che con precisione chirurgica lo taglia i

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Il paese, sperduto nei campi del pavese e abitato da cinquantasei anime, è attraversato da un’unica lingua di asfalto, che con precisione chirurgica lo taglia in due. Trentatré case da una parte, trentatré case dall'altra, che fino a tredici anni prima, facevano da spettatori immobili a una processione scoordinata di auto. I loro inquilini, abituati al via vai di auto, costruirono la loro vita su quelle presenze temporanee e passeggere.

Artigiani del legno, botteghe di frutta e verdura, laboratori di pasta fresca. Il paese era rinomato e conosciuto come un piccolo presepe, come un luogo in cui era obbligatorio fermarsi, se di passaggio.

Finché si decise di creare un’arteria viaria, che permettesse di risparmiare la bellezza di tredici minuti, tra le due cittadine situate a est e a nord del paesino. La processione di auto si fece sempre più deserta. Resisterono solo gli amatori di quei prodotti unici e saporiti, creati con amore e pazienza dagli artigiani locali, finché anche questi, senza tanti complimenti, lo cancellarono dalla mente.

Da quel momento, gli spettatori immobili hanno iniziato un lungo e inesorabile declino verso l’oblio. Abbandonati da chi è passato a miglior vita e dimenticato da chi, stanco di quel torpore, si spostò a est o a ovest in cerca di miglior vita.

Quando l’ultimo gallo smise di cantare, erano appena le sei e un quarto del mattino di un giugno caldo. L’aria, già umidiccia dalle prime ore, rendeva fastidioso il contatto della pelle su ogni superficie con la quale si veniva a contatto. Gino, sessantatré anni portati con l’ottusità di un ottantenne che non capisce e non sopporta le nuove generazioni, aprì la porta a vetri del suo bar.

Avanzava a piccoli passi e con una leggera incertezza sulla gamba destra che lo faceva ondeggiare come un pinguino. Tutti in paese conoscevano l’origine di quel problema, ma tutti si sorbivano annuendo il suo racconto su come si ferì in guerra.

L’unica certezza e verità di questa faccenda era la guerra, intesa come evento e periodo bellico. Ma il signor Luigino Maggi, noto Gino, al fronte non ci andò mai, essendo appena un bambino di pochi anni durante quel periodo. Era di stanza a Firenze, come attendente e autista di un colonnello di Pordenone. Per il quale svolgeva le pratiche dell’ufficio e le commissioni personali, oltre ad accompagnarlo per le missioni di servizio e per quelle di rappresentanza, come era solito definirle l’ufficiale. Che poi, altro non erano, che visite a signore procaci e compiacenti, spesso all'insaputa dei legittimi consorti.

Era il bar, l’unico punto di aggregazione del paese, da quando anche l’oratorio chiuse per mancanze di bambini. Due mandate alla serratura, che strideva con la fragilità dei vetri opachi di quell'infisso dalla vernice scrostata. Camminando a memoria, come nei precedenti quarantacinque anni, fece cinque a passi a destra, e raggiunto il quadro dell’impianto elettrico, sollevò gli interruttori delle luci interne, del retro-banco e della piccola insegna esterna scolorita.

L’aria del bar era permeata dell’aroma del toscanello, che trovava collocazione nell'angolo destro della sua bocca, dal momento in cui si alzava, fino all'ultima boccata prima di addormentarsi. Tutti gli avventori del suo locale conoscevano quell'odore muschiato e leggermente affumicato, e nessuno, nonostante il divieto di fumo negli esercizi pubblici, se ne era mai lamentato. Faceva ormai parte dell’arredo alla pari dei tavolacci in legno, realizzati dallo zio falegname, conosciuto da tutti come Sion Gioann, nel lontano millenovecentocinquantuno.

Come tutte le mattine accese la macchina del caffè. Una Tomassoni a due bracci, con erogatore di vapore per i cappuccini, unico elettrodomestico moderno del bar. Guardandola si chiedeva perché si ostinasse ad accenderla, dal momento che erano in pochi a bere il caffè da lui, e solo verso l’ora di cena iniziava a erogare un caffè quasi bevibile.

Continua...

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